Le Brigate rosse funzionano perfettamente: ma (e il ma ci vuole) sono italiane. Sono una cosa nostra, quali che siano gli addentellati che possono avere con sette rivoluzionarie o servizi segreti di altri paesi. E non che si voglia qui avanzare il sospetto di un rapporto, se non fortuito e da individuo a individuo, con l'altra « cosa nostra» di più antica e provata efficienza: ma analogie tra le due cose ce ne sono. Le Brigate rosse avranno studiato ogni possibile manuale di guerriglia, ma nella loro organizzazione e nelle loro azioni c'è qualcosa che appartiene al manuale non scritto della mafia. Qualcosa di casalingo, pur nella precisione ed efficienza. Qualcosa che è riconoscibile più come trasposizione di regola mafiosa che come esecuzione di regola rivoluzionaria. Per esempio: l'azzoppamento - che è trasposizione dello sgarrettamento del bestiame praticato dalla mafia rurale. Per esempio: il sistema per incutere omertà e sollecitare protezione o complicità; sistema in cui ha minima parte la corruzione, una certa parte la minaccia diretta, ma è quasi sempre affidato al far sapere che non c'è delazione o collaborazione di cui loro non siano informati. Il sistema, insomma, di ingenerare sfiducia nei pubblici poteri e di rendere l'invisibile presenza del mafioso (o del brigatista) più pressante e temibile di quella del visibile carabiniere. Per esempio: la micidiale attenzione dedicata al personale di vigilanza delle carceri e che tende a stabilire, dentro le carceri, il privilegio del detenuto rivoluzionario così come vi si è da tempo stabilito il privilegio del detenuto mafioso (e non si creda che il mafioso se ne sia avvalso soltanto nel senso della comodità: molto prima che dei politici, la concezione del carcere come luogo di proselitismo, di aggregazione, di scuola, è stata dei mafiosi). E al di là di queste analogie, fino a un certo punto oggettive, nella coscienza popolare se ne è affermata un'altra: che come la mafia si fonda ed è parte di una certa gestione del potere, di un modo di gestire il potere, così le Brigate rosse. Da ciò quella che può apparire indifferenza: ed è invece la distaccata attenzione dello spettatore a una pièce che già conosce, che rivede in replica, che segue senza la tensione del come va a finire ed è soltanto intento a cogliere la diversità di qualche dettaglio nelle scene e nell'umore degli attori. Ed è facile sentir dire, e specialmente in Sicilia, che questa delle Brigate rosse è tutta una storia come quella di Giuliano: e ci si riferisce a tutte quelle acquiescenze e complicità dei pubblici poteri che i siciliani conoscevano ancor prima che diventassero risultanze (queste sì, risultanze) nel famoso processo di Viterbo. Atteggiamento che si può anche disapprovare, non poggiando su dati di fatto; ma che trova giustificazione in quel distico di Trilussa che dice la gente non fidarsi più della campana poiché conosce quello che la suona.
L'affaire Moro, Leonardo Sciascia - edizioni Sellerio
Senza titolo, olio su tela - Gianluca Salvati - 1995 |