Good - Piero Golia c'era... 2012 © - Gianluca Salvati

sabato 23 novembre 2013

Aldo Moro e papa Montini, Paolo VI | L'affaire Moro, Leonardo Sciascia

A lenire la lacerazione della Democrazia Cristiana, interviene Paolo VI: qualche ora prima che scada l'ul­timatum delle Brigate rosse e con una lettera che la radio vaticana diffonde e i giornali riproducono in autografo l'indomani. Lettera che sembra di alto sen­tire cristiano: solo che vi si cela, nell'esortazione agli uomini delle Brigate a liberare Moro «semplicemen­te, senza condizioni», una specie di confermazione - e sarebbe da dire tout court cresima - della Demo­crazia Cristiana in quella sua dichiarata «indefettibi­le fedeltà allo Stato».

Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini
Nella «prigione del popolo», a Moro non sfugge quel che alla generalità degli italiani, commossi dal­l'inginocchiarsi del papa davanti ai brigatisti, non ap­pare: che Paolo VI ha più «senso dello Stato» di quanto abbia dimostrato di averne il principe Ponia­towski, ministro degli Interni dello Stato francese, che in tempi non lontani aveva dichiarato ammissibile il principio di trattare coi terroristi per evitare il sa­crificio «della vita umana innocente». Vale a dire che la pensava esattamente come Moro: né si può dire che lo Stato francese non sia Stato; lo è con tutti i sacramenti, è il caso di dire. I sacramenti che fanno Stato uno Stato; e magari in abbondanza.
E tenterà, Moro, di convincere il papa: «In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me». E in una delle ultime lettere, meno umil­mente farà notare come nell'atteggiamento della San­ta Sede nei riguardi del suo caso ci sia una modifica di precedenti posizioni e un rinnegamento di tutta una tradizione umanitaria. «È una cosa orribile, indegna della S. Sede ... Non so se Poletti (il cardinale Poletti) può rettificare questa enormità in contraddizione con altri modi di comportarsi della S. Sede»: e certamente pensa all'offrirsi del papa, qualche mese prima, come ostaggio ai terroristi tedeschi che minacciavano la strage dei passeggeri di un aereo, a Mogadiscio. Offerta che allora apparve senza senso della realtà: ma veniva dall'unica realtà che un papa può ritrovare e celebrare, nell'assistere inerme e come sconfitto al ribollire della violenza.
Come era prevedibile, l'appello del papa passa come acqua sulle pietre; e la comunicazione della De­mocrazia Cristiana di aver dato incarico alla Carità di cercare «possibili vie» è considerata dalle Brigate rosse tutt'altro che chiara e definitiva (comunicato numero otto del 24 aprile).
L'affaire Moro, Leonardo Sciascia (Sellerio editore)

sabato 9 novembre 2013

Brigate rosse e mafia | L'affaire Moro - Leonardo Sciascia

Le Brigate rosse funzionano perfettamente: ma (e il ma ci vuole) sono italiane. Sono una cosa nostra, quali che siano gli addentellati che possono avere con sette rivoluzionarie o servizi segreti di altri paesi. E non che si voglia qui avanzare il sospetto di un rap­porto, se non fortuito e da individuo a individuo, con l'altra « cosa nostra» di più antica e provata efficien­za: ma analogie tra le due cose ce ne sono. Le Brigate rosse avranno studiato ogni possibile manuale di guer­riglia, ma nella loro organizzazione e nelle loro azioni c'è qualcosa che appartiene al manuale non scritto della mafia. Qualcosa di casalingo, pur nella precisio­ne ed efficienza. Qualcosa che è riconoscibile più co­me trasposizione di regola mafiosa che come esecu­zione di regola rivoluzionaria. Per esempio: l'azzop­pamento - che è trasposizione dello sgarrettamento del bestiame praticato dalla mafia rurale. Per esem­pio: il sistema per incutere omertà e sollecitare pro­tezione o complicità; sistema in cui ha minima parte la corruzione, una certa parte la minaccia diretta, ma è quasi sempre affidato al far sapere che non c'è delazione o collaborazione di cui loro non siano infor­mati. Il sistema, insomma, di ingenerare sfiducia nei pubblici poteri e di rendere l'invisibile presenza del mafioso (o del brigatista) più pressante e temibile di quella del visibile carabiniere. Per esempio: la mici­diale attenzione dedicata al personale di vigilanza delle carceri e che tende a stabilire, dentro le carceri, il privilegio del detenuto rivoluzionario così come vi si è da tempo stabilito il privilegio del detenuto mafioso (e non si creda che il mafioso se ne sia avvalso soltan­to nel senso della comodità: molto prima che dei po­litici, la concezione del carcere come luogo di prose­litismo, di aggregazione, di scuola, è stata dei mafiosi). E al di là di queste analogie, fino a un certo punto oggettive, nella coscienza popolare se ne è affermata un'altra: che come la mafia si fonda ed è parte di una certa gestione del potere, di un modo di gestire il po­tere, così le Brigate rosse. Da ciò quella che può appa­rire indifferenza: ed è invece la distaccata attenzione dello spettatore a una pièce che già conosce, che ri­vede in replica, che segue senza la tensione del come va a finire ed è soltanto intento a cogliere la diversità di qualche dettaglio nelle scene e nell'umore degli attori. Ed è facile sentir dire, e specialmente in Si­cilia, che questa delle Brigate rosse è tutta una storia come quella di Giuliano: e ci si riferisce a tutte quel­le acquiescenze e complicità dei pubblici poteri che i siciliani conoscevano ancor prima che diventassero ri­sultanze (queste sì, risultanze) nel famoso processo di Viterbo. Atteggiamento che si può anche disappro­vare, non poggiando su dati di fatto; ma che trova giustificazione in quel distico di Trilussa che dice la gente non fidarsi più della campana poiché conosce quello che la suona.
L'affaire Moro, Leonardo Sciascia - edizioni Sellerio

Senza titolo, olio su tela - Gianluca Salvati - 1995

martedì 5 novembre 2013

Dialettica e verità | Vito Mancuso su Florensky

"Ho cercato di comprendere la struttura del mondo con una continua dialettica del pensiero".
Dialettica vuol dire movimento, pensiero vivo, perché "il pensiero vivo è per forza dialettico", mentre il pensiero che non si muove è quello morto dell'ideologia, che, nella versione religiosa, si chiama dogmatismo.
Il pensiero si muove se è sostenuto da intelligenza, libertà interiore e soprattutto amore per la verità, qualità avverse a ogni assolutismo e abbastanza rare anche nella religiosità tradizionale. [...] La sua lezione spirituale è piuttosto un'altra: la fede non è un assoluto, è relativa, relativa alla ricerca della verità. Quando la fede non si comprende più come via verso qualcosa di più grande ma si assolutizza, si fossilizza in dogmatismo e tradisce la verità.
La dialettica elevata a chiave del reale si chiama antinomia, concetto decisivo per Florensky che significa "scontro tra due leggi" entrambe legittime. L'antinomia si ottiene guardando la vita, che ha motivi per dire che ha un senso e altri opposti. Di solito gli uomini scelgono una prospettiva perché tenerle entrambe è lacerante, ma così mutilano l'esperienza integrale della realtà. Ne viene che ciò che i più ritengono la verità, è solo un polo della verità integrale, per attingere la quale occorre il coraggio di muoversi andando dalla propria prospettiva verso il suo contrario. Conservando la propria verità e insieme comprendendone il contrario, si entra nell'antinomia.
"La verità è antinomica è non può non essere tale".
Vito Mancuso

Enza, acrilico su tavola - Gianluca Salvati - 1996

lunedì 4 novembre 2013

Lourdes: culto delle rocce nel Medioevo | Arte paleolitica e romanico | Sopravvivenze e risvegli formali - Focillon

Una tradizione può essere una forza viva, rinnovata dai bisogni spirituali delle generazioni, arricchita dalle esperienze, modellata dal tempo. Essa può d'altronde, presentarsi come un deposito o come un rufiuto che le età si trasmettono per inerzia. In questo senso si può veramente dire che essa è passiva anche quando la lussureggiante vegetazione dei miti la avvolge. Spesso incontriamo nella storia dell'arte tradizioni di questa natura, in particolare nella trasmissione delle forme dalla preistoria e dall'antichità al Medioevo. Queste forme, definite con vivace nitidezza e come impresse in una materia molto dura, attraversano il tempo senza esserne intaccate. Quello che può cambiare è il modo in cui vengono lette dalle generazioni, che vi riversano diversi tipi di contenuto, tanto che si può dire, capovolgendo un famoso verso: la forma rimane e la materia si perde - la "materia", ossia ciò che riempie la forma o ciò che la riveste. In altri termini, stabilità morfologica, instabilità semantica.
L'arte popolare ci offre più di un esempio di queste tradizioni passive. Si sa che si dà questo nome, del tutto provvisorio, a un complesso in cui entrano, in misura disuguale a seconda dei luoghi, una degenerazione di forme molto evolute, di forme "dotte", indurite e semplificate forse sotto l'influenza di tecniche rudimentali e, d'altra parte, una serie considerevole di temi geometrici, ai quali bisogna aggiungere certe immagini geometrizzate della vita animale. Tutta questa geometria viene dalla preistoria, risale al neolitico o almeno all'età del bronzo e questa genalogia è così saldamente stabilita che non è il caso di insistere.
[ ... ]  Ma la tradizione megalitica è ancora più curiosa. È inutile ricordare il numero e l'importanza delle pietre megalitiche, dolmens, cromlechs, menhirs così frequenti nell'Europa occidentale, in particolare nell' Armorica, il cui senso e la cui origine non sono ancora ben conosciu­ti. La toponomia ne' ha conservato il ricordo anche quando sono scomparse: le Pierrefitte, le Pierrelatte ab­bondano nel nostro paese. Una parvenza della tradizio­ne megalitica si ritrova nella vita religiosa. Salomon Rei­nach e Sébillol1haono dimostrato la lunga sopravviven­za del culto delle rocce e delle pietre nel Medioevo, tan­to che i concili dovettero condannarlo espressamente a più riprese: Arles (452), Tours (567), Nantes (658), To­ledo (681 e 682) e fino all'editto di Carlo Magno, alla fi­ne dell'VIII secolo (789). Si potrebbe credere che que­st'ultima data sia un termine: ufficialmente, canonica­mente, sì. Ma se la sopravvivenza cultuale si spegne, tut­tavia sussiste nell'immaginazione popolare qualche cosa in più di un vago ricordo. Anche quello strano cristiane­simo bretone, di cui Renan ci ha fatto conoscere così be­ne l'aspetto arcaico, è ricco di credenze poetiche che ri­guardano sorgenti e pietre. Allo stesso ordine di feno­meni appartiene la cristianizzazione dei megaliti [ ... ]. Il dolmen di Plouaret (Coste del nord) è stato trasformato in una cappella dedicata ai "sette santi". C'è di meglio: nella Charente, a Saint-Germain de Confolens, la tavola di pietra megalitica ha perso i suoi sostegni primitivi ed è sorretta da quattro colonne sormontate da capitelli 1ogori, probabilmente romanici. Il caso è singolare, per­ché vi si nota chiaramente uno sforzo cosciente di intro­durre in una struttura medievale un elemento megaliti­co conservato nella sua forma.
Ci si può chiedere se una tradizione così forte non ab­bia esercitato un'influenza diretta sulla decorazione e se la Bretagna, per esempio nel Medioevo, non porti nella sua scultura tracce del vecchio repertorio lineare, di cui i suoi antichi abitanti hanno fatto uso in certi tumuli o in certe allées couvertes. [ .. .] È stato suggerito che la ric­chezza del repertorio romanico dell'ovest e soprattutto del sudovest, dove abbondano combinazioni astratte, fosse probabilmente dovuta alla persistenza di una ispi­razione" celtica". Oggi è stato dimostrato che questi te­mi appartengono a un ampio fondo comune che, su tre o quattro motivi fondamentali, combina ovunque delle specie di fughe più o meno complesse, sulle quali si or­dinano le immagini stesse della vita.

Volto grigio, collage su cartone - Gianluca Salvati - 2008
È a tutt' altro ordine di fatti che appartengono certi paesaggi dipinti alla fine del Medioevo da maestri visio­nari che noi definiremmo volentieri paesaggi megalitici, se questo termine non risvegliasse l'idea di una filiazione sicuramente discutibile e anche inattendibile. Ma è inte­ressante vedere gli uomini di quell' epoca, alla vigilia stessa del suo declino, darei più o meno coscientemente un esempio di queste retrospettive, forse anche di quella nostalgia delle origini, potenti fattori nell' organizzazione interna della vita storica. [ .. .]
Il repertorio delle sopravvivenze potrebbe essere ar­ricchito da altri esempi, senza apportare elementi decisi­vi alla storia del Medioevo. Sono vestigia non rinnovate da nessuna esperienza, rifiuti del tempo che il tempo cancella a poco a poco. 

Arte paleolitica
[ .. .] L'arte paleolitica è quasi esclusivamente conosciut­a proprio per il primo di questi due aspetti. I dipinti degli sfondi delle grotte, le sculture scoperte negli stessi luoghi attestano notevoli qualità di osservazione e di movimento. Fin dai primi tempi della sua evoluzione, l'arte sembra in possesso dei suoi valori essenziali. Non si spingerà mai oltre nella rappresentazione della vita animale. Potrà mai ritrovare quello slancio e quella fre­schezza? L'uomo del paleolitico raffigura di getto, ma aiutato da una lunghissima familiarità, i compagni della sua vita, la renna solitaria o in branco, il bisonte nell'atto di caricare, il mammut saldo sui colossali pilastri del­le sue zampe. Anche il tratto dell'incisione su pietra, di una purezza rigida, dà alla forma l'agilità e il fascino di ciò che vive. La scultura ha la bellezza del peso, la pre­cisione dei volumi, la qualità flessuosa e delicata del modello. [ ... ] Ma si commetterebbe un grave errore se, dietro a questo naturalismo pieno di forza e di fuoco, si lasciasse deliberatamente in ombra, nella stessa epoca, il ricco repertorio dell' ornatista. Si ha forse una certa tendenza a irrigidire le categorie, a vedere nell'arte paleolitica  solo la rappresentazione della vita e nella neolitica e nei diversi periodi dell'età del bronzo, soltanto l'abbondanza e la raffinatezza della decorazione astratta. Infatti questi due aspetti dell'attività creatrice sono più simultanei e paralleli che successivi. Ma ogni epoca della civiltà pone l'accento su uno di essi, senza rinun­ciare del tutto all'altro. Guardiamoci dall'essere vitti­me, su questo punto, di una concezione puramente li­neare e schematica dell'evoluzione. In ogni caso, la maggior parte dei temi caratteristici della pietra levigata e del bronzo appare fin dall'epoca precedente: spirali, cerchi, spine di pesce, scaglioni, ecc., come testimonia­no i ritrovamentl fatti nelle grotte della regione del Pi­renei, in particolare nei pressi di Lourdes. Così si può dire che un' arte si giustappone a un' altra. Ma, fra le due, vi è scambio e comunicazione? Dal punto di vista morfologico puro, è forse così che bisogna interpretare i misteriosi segni tettiformi che improntano, con una composizione di triangoli, rappresentazioni perfettamente fedeli della vita animale, ma che restano in superficie, senza essere incorporate, senza intervenire, co­me fattore di stile, nella struttura dell' animale. In un certo numero di oggetti, il fenomeno è del tutto diver­so. Non si tratta più di una sovrapposizione pura e semplice: la forma viva tende a sottoporsi alle sue leggi o piuttosto, per adottare una definizione più generale, cessa di bastare a se stessa, collabora a un certo effetto decorativo, traendo profitto dalla forma del suo supporto.. D'altra parte, tutto ciò che nell'essere vivente può prestarsi a essere astratto diventa fonte di nuovi sviluppi. Da qui raggiungiamo, attraverso i tempi, il principio stesso dello "stile animale" della Russia meridionale. Non è perché gli sciti e gli artisti dell'età della pietra sono stati gli uni e gli altri grandi animalisti che è possibile accostarli, ma perché sono entrambi abili, almeno in certi casi, a comporre la forma secondo esigenze che oltrepassavano i limiti dell'osservazione stessa. [ ... ]
Dopo essere risaliti alle origini, sarebbe interessante fare lo stesso percorso in senso inverso, seguire lo sviluppo continuo dello "stile animale" attraverso periodi più vicino a noi, vederlo oscillare dall'adattamento rigoroso alla funzione [ ... ], alla pura fantasia ornamentale [ ... ], dall'arido schematismo degli orafi barbari alla imponente monumentalità degli scultori romanici. Ma questa vita cangiante delle forme, che le tecniche rinnovano e diversificano, ondeggia sempre intorno allo stesso principio, a cui non mente mai. Mostrandoci le prime applicazioni durante il periodo paleolitico, la preistoria non annuncia solo l'arte iraniana della Russia meridionale, essa riguarda tutto il Medioevo.
I percorsi delle forme, Maddalena Mazzocut-Mis

sabato 2 novembre 2013

Sacra Sindone | Enrico Cajati, "Volto santo", olio su tela

1988 - Rivelazione: la Sacra Sindone non risale ai tempi di Gesù (ammesso che sia mai esistito) il lenzuolo di lino conservato nel Duomo di Torino sul quale è impresso il volto di un uomo con i segni della crocifissione. Analisi svolte nei laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo lo datano tra il 1290 e il 1360. Insomma, dati alla mano, la Sacra Sindone è, tutt'al più, un efficace e ben sfruttato dipinto medievale...

Volto santo, olio su tela di lino - Enrico Cajati