Good - Piero Golia c'era... 2012 © - Gianluca Salvati
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giovedì 15 gennaio 2015

Lo stoicismo e il falso carteggio fra Seneca e Paolo di Tarso

Già un secolo prima di Marco Aurelio lo stoicismo si era avvicinato al trono imperiale, quando Seneca era diventato anzitutto l'educatore del giovane Nerone, e poi il suo prin­cipale consigliere politico e speechwriter, quando questi ascese al trono nel 54. Nerone non era naturalmente Ales­sandro Magno, né Seneca era Aristotele, ma i due reinter­pretarono comunque il copione del sodalizio fra il grande filosofo e il giovane imperatore, fino a quando il primo cad­de in disgrazia e il secondo lo condannò al suicidio nel 65. Sentenza che Seneca eseguì, naturalmente, con stoica sere­nità, sulla base di un altro classico principio stoico: «Accet­tare volontariamente l'inevitabile »,
Marco Aurelio e Seneca sono esponenti della cosiddetta «ultima Stoà», concentrata prevalentemente su problemati­che morali e spirituali, e rappresentante una sorta di religio­ne laica e colta: in alternativa, dunque, a quella clericale e «cretina», che dapprima cercò di annettersela inventandosi un apocrifo carteggio tra Seneca e Paolo di Tarso, e poi riu­scì a scalzarla in base al principio che a diffondersi in epi­demie sono le malattie infettive e non la salute, fisica o mentale che sia.
Ai fini della logica a noi interessa, però, la «prima Stoà »: quella fondata ad Atene verso il 300 p.e.V. dal ci­priota Zenone di Cizio, che non va naturalmente confuso col precedente eleatico. Essa prese il nome dalla stoà poiki­le, il «portico dipinto» nel quale aveva sede, e divenne pre­sto il terzo polo della vita culturale ateniese.
L'importanza che le tre scuole mantennero a lungo nella vita della città è testimoniata dal fatto che i Greci, quando dovettero inviare una missione diplomatica a Roma nel 156 p.e.V., dopo la conquista romana della Macedonia, non tro­varono niente di meglio che scegliere Carneade (il manzoniano «chi era costui?») dall'Accademia, Critolao dal Li­ceo, e Diogene dalla Stoà.
Tra parentesi, i tre si fecero onore: arrivati a Roma, ini­ziarono i giovani Romani alle loro dottrine, ed ebbero tanto successo che Catone li fece immediatamente rispedire a ca­sa, per paura che la filosofia finisse col provocare una disaf­fezione verso la vita militare. D'altronde, un Censore non poteva che preferire la militarizzazione dei civili alla civi­lizzazione dei militari.
Per tornare alla Stoà, l'esponente più importante fu il suo terzo rettore, il fenicio Crisippo di Soli, vissuto nel terzo se­colo p.e.V. Stilisticamente, sembra non fosse un granché: d'altronde, veniva da una città che aveva ispirato il termine soloikismos, «solecismo », usato ancor oggi nel senso di «sgrammaticatura ». Quanto a produzione, invece, doveva essere un vero grafomane, visto che scriveva 500 righe al giorno: ovvero, l'equivalente dell'intera opera di Aristotele ogni due anni e mezzo, e 700 libri in tutta la vita, un centi­naio dei quali dedicati alla logica.
Tutti questi libri sono oggi perduti, come del resto quelli dell'intera scuola. La quale, per una serie di ragioni, com­presa quella già accennata della competizione etica col Cri­stianesimo, finì per essere completamente rimossa. Al pun­to che oggi di Accademie e Licei è pieno il mondo, ma non c'è neppure una Stoà. È rimasto l'aggettivo «stoico», usato però quasi esclusivamente nel senso di distacco e sopporta­zione al quale abbiamo già accennato.
Piergiorgio Oddifreddi, Le menzogne di Ulisse

Seneca - Ultima Stoà


giovedì 7 agosto 2014

La sola rivoluzione, J. Krishnamurti - Meditazione e dualismo | Verità, rivelazione e condizionamento: l'armamentario della religione organizzata

[...]  Lasciamo stare se l'interlocutore sia un indiano educato in questa tradizione, condizionato in questa cultura, e se sia la sintesi di questa antica dottrina. Prima di tutto egli non è un indiano, cioè non appar­tiene a questa nazione o alla comunità dei brahmini, sebbene vi sia nato. Nega la stessa tradizione di cui è stato investito. Nega che la sua dottrina sia la continuità degli insegnamenti antichi. Non ha letto nessuno dei libri sacri dell'India o dell'Occidente, perché sono inutili a un uomo che è consapevole di ciò che avviene nel mondo - della con­dotta degli esseri umani con le loro interminabili teorie, con la ben accetta propaganda di duemila o cinquernila anni che è diventata la tradizione, la verità, la rivelazione. 

Alberi, monte, nuvola, cielo settembrino
Per un uomo simile, il quale si rifiuta totalmente e completamente di accettare il mondo, il simbolo con il suo condizionamento, la verità non è un affare di seconda mano. Se voi lo aveste ascoltato, signore, non vi sarebbe sfuggito che fìn dall'inizio ha detto che ogni accettazione di autorità è la negazione stessa della verità, e che ha insistentemente affermato che è necessario essere al di fuori di ogni cultura, tradizione e morale sociale. Se aveste ascoltato, non direste che è un indiano o che continua la tradizione antica in termini moderni. Egli nega total­mente il passato, i suoi maestri, i suoi interpreti, le sue teorie e le sue formule.
La verità non è mai nel passato. La verità del passato è la cenere della memoria; la memoria procede dal tempo e nella morta cenere dell'ieri non c'è verità. La verità è una cosa vivente, ma non nella sfera del tempo.
Così, lasciando stare tutto ciò, possiamo ora passare all'argomento centrale che voi postulate, il Brahman. Sicuramente, signore, la stessa asserzione è una teoria inventata da una mente ricca di immaginazione - sia essa Shankara o il dotto teologo moderno. Si può sperimentare una teoria e dire che è così. Ma un uomo che sia stato educato e condizionato nel mondo cattolico non può avere che visioni di Cri­sto, le quali ovviamente sono la proiezione del suo condizionamento, così come coloro che sono stati educati nella tradizione di Krishna hanno esperienze e visioni nate dalla loro cultura. Così l'esperienza non prova nulla. Riconoscere la visione come Krishna o Cristo è il risul­tato di una conoscenza condizionata; quindi non è affatto una realtà, ma una fantasia, un mito, a cui l'esperienza dà vigore, ma che non ha validità. Perché avete bisogno a ogni costo di una teoria e perché postulate una credenza? Questo voler porre costantemente la neces­sità della credenza è un sintomo di paura - paura della vita di ogni giorno, paura del dolore, paura della morte e dell'assoluta mancanza di significato della vita. Vedendo tutto ciò, voi inventate una teoria e quanto più questa è abile ed erudita tanto più ha peso. E dopo due­mila o diecimila anni di propaganda quella teoria invariabilmente e scioccamente diviene 'la verità'.
Ma se non postulate alcun dogma, allora vi trovate faccia a faccia con ciò che realmente è. Il 'ciò che è' è il pensiero, il piacere, il dolore e la paura della morte. Quando capirete la struttura della vostra vita quotidiana - con la sua competizione, avidità, ambizione e sete di potere - allora vedrete non solo l'assurdità di teorie, salvatori e guru, ma forse troverete una fine al dolore, una fine all'intera struttura costruita dal pensiero.
La penetrazione e la comprensione di questa struttura è la meditazione.
Allora vedrete che il mondo non è una illusione, ma una terri­bile realtà costruita dall'uomo nel suo rapporto col suo simile. Sono queste le cose che vanno capite e non le vostre teorie del Vedanta, con i riti e tutto l'armamentario della religione organizzata.
Quando l'uomo è libero, senza alcun motivo di paura, di invidia o di dolore, allora soltanto la mente trova la sua pace naturale. Allora può vedere non solo la verità nella successione degli attimi della vita quotidiana, ma anche trascendere la percezione. Allora si ha la fine dell'osservatore e dell'osservato, e la dualità cessa.
Ma di là da tutto ciò e senza alcun rapporto con questa lotta, con questa vanità e disperazione, c'è - e non è una teoria - una cor­rente che non ha né principio né fine, un movimento infinito che la mente non saprà mai cogliere.
Ovviamente, signore, voi farete una teoria di ciò che avete ascol­tato, e, se questa nuova teoria vi piacerà, la diffonderete. Ma ciò che diffondete non è la verità. La verità è solo quando voi siete libero dal dolore, dall'ansia e dall'aggressività che ora riempiono il vostro cuore e la vostra mente. Quando vedrete tutto ciò e quando incontrerete quella benedizione chiamata amore, allora conoscerete la verità di ciò che ora vi viene detto.
La sola rivoluzione, J. Krishnamurti