Good - Piero Golia c'era... 2012 © - Gianluca Salvati

martedì 15 maggio 2012

Lo scandalo della P2, la loggia infame | La legge Spadolini sulle "logge coperte"

Nel processo di restaurazione tradizionale e di definizione di un'identità consona ai tempi nuovi non ha certamente giovato alla Massoneria italiana la vicenda della P2 che, per quanto la si possa interpretare come una “deviazione”, ha comunque messo in luce anche per gli stessi affiliati la presenza nell'Ordine di uno spregiudicato settore affaristico e addirittura eversivo. In ogni caso la reputazione della Massoneria ne è uscita fortemente compromessa, nonostante il Grande Oriente si sia adeguato alle disposizioni della cosiddetta “legge Spadolini sulla P2” (1982) che ha vietato, con quella incriminata, le logge “coperte”, e preteso che siano accessibili le liste degli affiliati.

Giovanni Spadolini, partito repubblicano

Massoneria, le logge "coperte" - Loggia P2 e CIA

I giudici che si sono occupati della strage di Bologna hanno scritto: “Nel contesto di una generale attenzione rivolta da Gelli agli ambienti militari, assume una concatenazione specifica quella dedicata alla ristretta èlite di ufficiali succedutisi al comando dei vari servizi di sicurezza. La relazione della commissione di inchiesta è pervenuta a due interessanti conclusioni: Gelli appartiene ai servizi e ne è il vertice; la Loggia P2 e Gelli sono espressione di una influenza che la Massoneria americana e la CIA esercitano su Palazzo Giustiniani, sin dalla sua riapertura nel dopoguerra”.


La stazione di Bologna il gorno della strage

Massoneria - La Loggia Propaganda: Licio Gelli e i fratelli coperti

Della nota sigla P2 la P significa “Propaganda”. È il nome di una loggia nata nel 1877 allo scopo di “tenere attivi e vincolati all'Ordine e in corrispondenza diretta con il Grande Oriente gli uomini che per la loro posizione sociale non avrebbero potuto iscriversi nelle logge ordinarie e frequentarne i lavori” (U. Bacci, Il Libro del Massone Italiano, Bologna, 1972). Il clima storico è quello in cui molti affiliati alla Massoneria giocarono un ruolo importantissimo nell'assestamento dello Stato unitario. Fra i membri di questa loggia si possono infatti ricordare i nomi di G. Garibaldi, dei politici A. Saffi, G. Zanardelli, A. Bertani, e F. Crispi, del filosofo del diritto G. Bovio e del poeta G. Carducci. Che ci possano essere “posizioni sociali” incompatibili con la partecipazione ai regolari lavori delle logge è comprensibile, ma poiché la partecipazione a questi lavori è dalla Massoneria dichiarata essenziale per la costruzione e il percorso spirituale del singolo, sembra che si possa individuare sin dalle origini della Loggia “Propaganda” un cedimento a interessi di natura squisitamente profana. Tale valutazione è suffragata dal fatto che un primo scandalo, quello della Banca Romana del 1892-1893 in cui furono coinvolti alcuni dei suoi membri, determinò la crisi di questa loggia “atipica”.
Dopo il periodo fascista essa si ricostituì, assumendo il numero 2 per sottolineare la sua antica tradizione: tra le logge ancora attive poteva infatti vantare un'anzianità inferiore solo a quella della loggia alessandrina “Santorre di Santarosa”.
La Massoneria – Il vincolo fraterno che gioca con la storia; Giunti Editore

Nell'Ottocento la trovata dei “fratelli coperti”, e di conseguenza la creazione della Loggia Propaganda, era servita a proteggere chi temeva le persecuzioni clericali.

Gianfranco Piazzesi, Gelli – La carriera di un eroe di quest'Italia; ed. Garzanti

Licio Gelli, faccendiere neofascista della P2

Massoneria: Gran Maestro e 'fratelli coperti'

Il generale Battelli, penultimo Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, testimoniando dinanzi alla commissione parlamentare, almeno su questo punto era stato chiaro. “Per entrare in massoneria, fatta la domanda, cioè avvenuta la presentazione, l'interessato o il candidato viene sindacato da tre 'fratelli' autorizzati a chiedere informazioni su di lui. La sua fotografia viene esposta nella sala dei passi perduti, le sue qualifiche, la sua questione, viene discussa per tre volte nell'officina”. (Officina, nel linguaggio massonico, è sinonimo di loggia.)
L'ingegner Siniscalchi, entrato in massoneria nel 1953 e uscito nel 1976, era stato ancora più preciso. Ciascuno dei “fratelli inquisitori”, persone diverse dai presentatori, doveva redigere una “tavola informativa”, una relazione scritta. Inoltre ogni massone gode del diritto di visita, può partecipare, se lo crede opportuno, ai lavori di qualsiasi loggia. Tutti i “fratelli” iscritti nelle liste del Grande Oriente hanno la facoltà di presentarsi in loggia il giorno in cui si vota sull'accettazione di un aspirante e mettere una pallina nera nell'urna. Queste votazioni avvengono, con la garanzia del segreto, per tre riunioni successive. Vi partecipano decine di massoni regolarmente iscritti alla loggia, più gli eventuali “esterni”. Bastano tre palline nere per bocciare un candidato. Se i voti contrari sono sette, l'aspirante non può essere accolto nemmeno in un periodo successivo. […] L'aspirante deve frequentare la loggia, “lavorare” nell'“officina” almeno due volte al mese. Deve impegnarsi alla riservatezza e consegnare un veritiero resoconto del suo passato al capo della loggia, o Maestro Venerabile. Costui inserirà il suo nome in un elenco o “pié di lista” che sarà custodito a Palazzo Giustiniani. Ogni “fratello” avrà il diritto di consultarlo. Due controlli: dall'alto attraverso un ispettore, dal basso attraverso il “diritto di visita”, che consente a qualsiasi massone di partecipare anche ai lavori di una loggia della quale non fa parte. […] Come avrebbe scritto Salvini, in un documento ufficiale, “possono esistere per particolari ragioni di opportunità, note soltanto al Gran Maestro, fratelli 'coperti' con tutti i doveri e i diritti comuni ad ogni massone tranne quello di essere assegnati a una loggia e partecipare ai lavori”. Lo stesso Gran Maestro raccoglieva i nomi di questi fratelloni “all'orecchio”, dalla “bocca” del suo predecessore. Nel fiorito linguaggio massonico, ciò stava a significare che costoro non erano soltanto esonerati dalle riunioni mensili. Essi godevano anche di un grosso privilegio: potevano tener nascosta la loro appartenenza alla massoneria ai profani e agli stessi “fratelli”. Il Gran Maestro era il depositario del loro segreto. Serbava nella “memoria” i loro nomi e al momento di lasciare la carica li bisbigliava, appunto, all'orecchio del successore. Ma la memoria non è infallibile e i nomi erano parecchi. Anzi tendevano sempre ad aumentare. Da qui l'esigenza di un “pié di lista”, corredato dai documenti che comprovassero l'iniziazione. Ma, a differenza degli elenchi dei fratellini, quello dei fratelloni non veniva depositato alla segreteria del Grande Oriente, a Palazzo Giustiniani. Per garantire una copertura davvero completa, i documenti li teneva il Gran Maestro. 
Gianfranco Piazzesi, Gelli – La carriera di un eroe di quest'Italia; ed. Garzanti


La Propaganda

 

lunedì 16 aprile 2012

Don Luigi Sturzo e la politica italiana | Chiesa & mafia

Non ho molta simpatia per i preti. Sorrido quando sento parlare di preti anarchici. Rabbrividisco quando si parla di preti antimafia. Mafia e Chiesa vanno a braccetto, sono le due facce di una stessa medaglia. 
Non ho mai sentito di una presa di posizione della Chiesa contro i mafiosi, che so una scomunica. Altrettanto dicasi per le varie dittature in cui la Chiesa ha sempre trovato il proprio “spazio”, una su tutte quella argentina della seconda metà degli anni settanta.
Questo è il Paese del Vaticano e i preti ce li propongono in tutte le salse. Non voglio dire che fra di essi non ce ne siano di buoni, ma solo ricordare che l'impunità e l'ipocrisia sono una costante per la Chiesa. Per pochi elementi validi ce n'è un esercito ben asservito e omertoso al giusto grado. 
Inoltre, pur considerando tutto il buono che può esserci in questa istituzione, bisogna ammettere che sovente è il peggio a prevalere: la feccia è più funzionale ai sistemi.
Detto ciò, don Luigi Sturzo risalta dal grigiore della politica italiana del novecento: una figura fuori dall'ordinario. Capace di scelte coraggiose come pochi, dato che a chiacchiere siamo tutti bravi e capaci, ma nei fatti pochi sono all'altezza delle aspettative. 
Don Luigi Sturzo è un vero combattente.

don Luigi Sturzo

Don Luigi Sturzo - “Gli uomini che fecero l'Italia” di Giovanni Spadolini

Giovanni Spadolini lo ricordava così: “In nessuno come in don Sturzo, i vent'anni dell'esperienza totalitaria avevano scavato un solco, che aveva coinciso con una vera e propria trasformazione. Il sacerdote che aveva dovuto lasciare l'Italia su consiglio dello stesso Vaticano, il leader del partito popolare che aveva subito la sconfessione della Curia all'indomani del congresso di Torino, l'apostolo della democrazia cattolica che aveva provato il morso della solitudine e l'amarezza degli abbandoni, era tornato dalla vita dell'esilio con un animus nuovo, con un senso nuovo della libertà e della tolleranza, con una nuova concezione dei “diritti dell'uomo” capace di dissolvere tutte le antiche pregiudiziali guelfe e teocratiche.
[…] Noi ricordiamo con estrema precisione lo sbarco di Sturzo a Napoli, in una mattinata insolitamente livida, piovigginosa, del settembre 1946. Ma l'Italia che il gran vecchio ritrovava era profondamente diversa da quella che egli aveva lasciato, sotto l'incubo della dittatura, in una mattinata non meno malinconica del 1924. Solo allora; quasi altrettanto solo oggi. A riceverlo su quel molo del porto partenopeo, c'erano si i vecchi amici, gli antichi compagni di cordata, quelli che non avevano tradito durante la dittatura, i “popolari” tutti di un pezzo altrettanto parchi di parole quanto fermi nella fedeltà ai valori della democrazia e della libertà; ma nessun suono di fanfare, nessun fasto di cerimoniale che del resto l'uomo non avrebbe mai tollerato.
Chiuso nel suo grande segreto, il semplice prete – che neppure un rappresentante ufficiale della Santa Sede avrebbe accolto al porto di Napoli – si preparava a riprendere la battaglia di sempre per la libertà forzatamente interrotta, a servire ancora una volta, con discrezione di politico e con fede di apostolo, la sua causa, cioè la sua Chiesa.
[…] Quando si saprà interamente, e un giorno pur di saprà, la vera storia di quell'“operazione” impropriamente chiamata “Sturzo”, si vedrà quanto il vecchio fondatore del partito popolare abbia operato in piena coerenza con le premesse programmatiche dell' “appello ai liberi e ai forti”, si sia ispirato a una sostanziale unità di intenti e di spiriti con l'uomo da cui pur lo dividevano tante valutazioni, intendiamo dire con Alcide De Gasperi.” 
Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l'Italia


Norberto Bobbio, olio su tela - Gianluca Salvati 1999

Don Luigi Sturzo, il partito popolare e il veto all'on. Gennaro Aliberti

Gennaro Aliberti era un losco figuro della politica napoletana. Organizzatore occulto del lotto clandestino era malvisto anche da uomini del governo. Ai primi del novecento, l'Aliberti aveva denunciato per diffamazione il giornalista Eduardo Giacchetti perché aveva pubblicato articoli sui suoi traffici illeciti. Il giornalista si era rivolto all'avvocato Enrico De Nicola per la difesa in tribunale, ma il De Nicola aveva pubblicamente rifiutato per non meglio precisati motivi.
La difesa di Eduardo Giacchetti fu assunta da Pietro Pansini, il mio trisavolo.
Quasi venti anni dopo, don Luigi Sturzo pose il veto alla candidatura dell' on. Gennaro Aliberti nelle liste del partito popolare.
"Terminato il discorso: S.E. Degni con tutti i suoi, si è allontanato dal palcoscenico ed il teatro si andava svuotando quando i fascisti sono insorti per il mancato contraddittorio promesso e S.E. Degni, impavido, è ritornato al suo posto. Si sono, però, incrociati vivaci battibecchi fra fascisti e popolari. A questo punto S.E. Degni, rispondendo al capitano Padovani, che chiedeva insistentemente il contraddittorio, ha detto di volerlo concedere ai fascisti, ma mai a persona pagata da Aliberti, ciò che ha eccitato viepiù l’ambiente, accrescendo il tumulto. Allora S.E. Degni ha creduto opportuno allontanarsi ed ha potuto raggiungere la sua automobile ed andar via. I fascisti sono usciti dal teatro col preordinato intendimento di dare molestia e dileggiare i popolari al loro passaggio per piazza S. Maria degli Angeli. Infatti i fascisti, riunitisi in meno di un centinaio nei pressi della sede della loro associazione, non appena hanno visto i popolari che s’incamminavano in corteo, hanno fatto per slanciarsi loro addosso e strappare la bandiera bianca dalla quale erano preceduti, ma sono stati affrontati dalla forza pubblica che è riuscita a trattenerli, per modo che i popolari hanno potuto proseguire per la loro via". 
(Rapporto del questore al prefetto 21/05/1921 - A.S.N., Gab. Questura, fasc. 5494)

don Luigi Sturzo




Massoneria yankee e propaganda | Quel pericoloso terrorista di Nelson Mandela - Noam Chomsky

 I potenti possiedono le maggiori risorse per l'uso della violenza, ma quando sono loro a usare violenza la chiamano autodifesa, al contrario quando le loro vittime o qualcun altro usano violenza allora quello si chiama terrorismo. Gli esempi di questa ipocrisia si sprecano: nel 1988, quando Washington era fermamente alleato al governo razzista del Sudafrica, il Pentagono definì Nelson Mandela “uno dei più pericolosi terroristi del mondo”, e naturalmente il governo di Pretoria si stava solo “difendendo” contro i “terroristi” di Mandela. In quegli anni il Sudafrica bianco fu responsabile della morte di circa un milione e mezzo di persone, dentro e fuori dalle sue frontiere.
Noam Chomsky

Human, collage su carta - Gianluca Salvati 2004


martedì 13 marzo 2012

Enrico De Simone, giornalista de l'Occidentale e il caso del finto attivista per i diritti umani

Cercando sul web gli articoli di un giornalista italiano conosciuto a Caracas, Enrico De Simone, mi sono imbattuto in questo:
19 Settembre 2008
Nella serata di giovedì 18 settembre, il governo venezuelano ha decretato l’espulsione dal paese di José Miguel Vivanco, l’avvocato cileno direttore della sezione America latina di Human Rights Watch.
La sua colpa: avere tenuto, nel pomeriggio di quello stesso giorno, una conferenza stampa in cui denunciava come, dal fallito golpe del 2002 ad oggi, la situazione dei diritti umani in Venezuela sia andata deteriorandosi.
Poche ore dopo – come ha raccontato lo stesso ministro degli Esteri venezuelano, Nicolas Maduro – Vivanco e il collaboratore che lo accompagnava venivano accompagnati all’aeroporto, messi su un aereo e espulsi dal paese, con la proibizione di tornarci in futuro. Vivanco – recita un comunicato governativo firmato da Maduro e dal suo collega degli Interni, Tarek El Aissami – “ha violentato la Costituzione e le leggi della Repubblica Bolivariana del Venezuela, aggredendo le istituzioni della democrazia venezuelana e immischiandosi illegalmente negli interessi del paese”. Maduro ha poi dichiarato che il direttore di HRW (Human Rights Watch) ha contravvenuto alle norme che regolano il transito attraverso il Venezuela di cittadini stranieri in condizione di turista, presentando “in maniera abusiva e volgare” una conferenza stampa “dove ha vilipeso le istituzioni della democrazia venezuelana, dove ha ferito la dignità delle nostre istituzioni, del nostro popolo, della nostra democrazia”. L'“aggressione” di HRW “risponde – continua la nota – a interessi vincolati e finanziati dal governo degli Stati Uniti d’America, che dietro la maschera di difensori dei diritti umani dispiegano una strategia di aggressione inaccettabile per il nostro popolo”. Per rendere ancor più chiaro quest’ultimo concetto, Maduro ha dichiarato: “Sono sicuro che dietro questa imboscata mediatica ci sono quelli di sempre, i padroni dei mezzi di comunicazione legati agli interessi dell’impero e quei gruppetti che, proclamandosi difensori dei diritti umani, ricevono soldi da Washington”.
Enrico De Simone, L'Occidentale

L'articolo è molto più lungo e argomentativo, ma la vicenda in sé ha molti spunti di riflessione.
Dal mio modesto osservatorio, di chi ha vissuto per quasi 2 anni a Caracas e si è trovato spesso a lottare per i propri diritti, l'occasione non poteva essere più ghiotta. Ho letto il rapporto di José Miguel Vivanco, direttore della sezione per l'America latina di HRW, sgradito al regime di Hugo Chavéz. 
Trovo, in questa denuncia, un'accozzaglia di luoghi comuni e falsità in linea col metodo fascista adoperato dal Vivanco per declamare le sue “verità”: ovvero atterrare in un Paese sovrano e andare a pontificare sui suoi metodi di governo.
Per non parlare dell'effetto focalizzazione magicamente creato da una (finta) pluralità di mezzi di comunicazione (il cosiddetto soft power), radio, tv e giornali. 
La solita disinfomazione pro-multinazionali.

José Miguel Vivanco: Human Rights Watch - Enrico De Simone: l'Occidentale

Segreti di Stato e omertà - Paolo Scartozzoni: la delegazione MAE

Qualche mese prima che Enrico De Simone giungesse a Caracas, avevo domandato alla dott.ssa Ornella Scarpellini, rappresentante del Ministero degli Esteri (italiano): “il diritto non è cultura ?” (Auditorium della scuola “Agustin Codazzi” - 10/03/2005). La funzionaria che aveva appena esposto le linee guida del suo ministero, mi aveva candidamente risposto: “No, il diritto non è cultura.”
La platea accolse silenziosamente l'asserzione.

Era passato da poco il carnevale, ma, evidentemente, per alcune istituzioni italiane il carnevale dura 365 giorni all'anno, specie se spalleggiate da un governo di pagliacci, tutto chiacchiere e distintivo. Chiacchiere e distintivo.
La mia domanda era necessariamente provocatoria, ma la risposta era da medio evo, o peggio, da età della pietra. 
Chissà cosa avrebbe risposto il signor Vivanco a quell'affermazione. Come se non bastasse, i rappresentanti istituzionali si proclamarono impotenti rispetto a quei delinquenti in grisaglia della giunta del Codazzi, nonostante il ministero elargisse un lauto assegno ogni anno al Codazzi. Dunque in assenza di un segreto di Stato, calava automaticamente l'omertà di Stato.
Come ho già scritto, eravamo senza contratto (a tempo determinato). Io avevo rischiato la pelle per un avvelenamento, che a quei tempi (ero ancora ingenuo) pensavo fosse stato un accidente. 

Serpente alchemico, rappresentazione plastica regime come sistema chiuso

Eppure, non potevamo accampare diritti, mentre quei signori venuti da Roma, degni rappresentanti della loro istituzione, dovevano dirci cosa fare in classe dato che avevano regalato la paritarietà a quella scuola...
Il giorno dopo mi assentai, avevo una reazione di schifo verso quella gente.
Che strumenti avevo per far valere i miei diritti?
Come potevo rivalermi nei confronti di quell'essere, perché uomo non si poteva chiamarlo, quella checca incravattata che aveva osato sbeffeggiami dal palco?


Propaganda di regime | "The Human Rights Show": Human Rights Watch e i diritti umani


Qualcuno nel mondo ha inventato le associazioni per i diritti umani, tipo questa di Human Rights Watch, non so esattamente cosa siano né come operino, ma verrebbe automatico rivolgersi a loro. Mi pare di aver capito che, rispetto alle questioni, si pongano in questo modo: “dato che noi siamo più civili (e di certo migliori) di voi, queste sono le giuste ricette per elevarvi dal vostro stato primordiale al nostro di onniscienza...”
Alla tv si parla spesso di loro, specie se di matrice yankee e non governativa
Immagino che costoro abbiano avuto un bel da fare in America latina, con tutti quei dittatori... Anche se non mi risulta alcun rapporto, per restare all'oggi, da parte di Human Rights Watch sulle violazioni perpetrate al G8 di Genova. Ciò significa che anche i diritti umani non sono uguali per tutti, ovvero il governo guidato da un piduista ha carta bianca...
Come alternativa alle associazioni per i diritti umani, c'è la possibilità di rivolgersi ai tribunali di giustizia. Già, i tribunali del Venezuela, il rapporto di Human Rights Watch di José Miguel Vivanco li descrive come asserviti alla politica. Sarà per questo che non ho mai sentito Chavéz scagliarsi contro i giudici e le loro sentenze?




Ero assetato di vendetta, decisi per la seconda opzione. Feci causa a quegli idioti infami dell'onorata associazione delinquenziale “A. Codazzi” di Caracas e, nel giro di un paio di anni ho avuto giustizia, quella stessa giustizia che, a detta degli eminenti funzionari della Farnesina, nota istituzione ex-prestigiosa del mio democratico paese, avrei dovuto attendere in un'altra vita...

Assegno estorto alla cricca Codazzi (sotto la mala gestione Anna Grazia Greco)

Tornando alla causa civile contro quei venduti del Codazzi, mi ha sconvolto la brevità dei tempi: appena due anni. In Italia, nella progredita Italia, quei tempi ce li sogniamo. Ma anche questo non è casuale. La colpa di ciò è da ascriversi unicamente alla cattiva politica troppo spesso parente stretta dell'illegalità diffusa e della delinquenza organizzata.
La verità e che qui si predilige l'impunità a scapito della legalità.
Per tutti questi motivi quel rapporto HRW mi è parso particolarmente falso e pretestuoso: una vera merdata.
Qualcuno potrebbe obiettare che la mia è un'esperienza unica. Errato. 
Negli anni 2006-2007, quei gaglioffi dell'associazione senza scopo di lucro con conto cifrato su banca svizzera (Credìt Suisse – sede di Lugano), hanno collezionato ben 4 cause da parte di insegnanti italiani, tutte puntualmente perse dal Codazzi. 
Cause che, con un po' di buona volontà avrebbero potuto essere molte di più, tanto per dare un'idea di come operi la "primadonna" Anna Grazia Greco, nella Pubblica Amministrazione...
Gianluca Salvati


Per chi voglia chiarirsi le idee sulle violazioni dei diritti umani in America latina e sulle effettive responsabilità, rimando alla raccolta di articoli di R. Kapuscinski, Cristo con il fucile in spalla (ed. Feltrinelli).

Enrico Cajati, olio su tela

giovedì 28 aprile 2011

Sul problema dei rifiuti a Napoli | Eduardo Giacchetti - Gennaro Aliberti


Mentre Eduardo Giacchetti, martire del dovere compiuto, vittima della iniquità borghese, sconta, nel fondo di un carcere, una condanna che disonora i giudici che la inflissero, e illumina di luce sfolgorante la fronte del condannato, per le vie di Napoli, per le anticamere prefettizie e sindacali, per le aule del Consiglio Provinciale e del Parlamento passa una canaglia, e osa di parlare in nome del popolo che lo disprezza e di firmare indirizzi a ministri in cui gli interessi del popolo sono propugnati, ed ha, per giunta, l'audacia di pronunziare invettive e apostrofi all'indirizzo di quell'Enrico Leone che compie opera di educazione e di coraggio, difendendo - lui solo - la vita morale ed economica di Napoli contro la marmaglia che la pastetta elettorale sguinzagliò contro i tappeti di Santa Maria La Nova.
Intendiamo parlare - chi non lo capisce ? - di Gennaro Aliberti, qualificato vigliacco da una ordinanza di tribunale e indicato alla pubblica disistima dalla terza inchiesta Saredo per le porcherie perpetrate al Carminiello.
 Ora parliamo franco: non ci sorprende il ritorno alla scena pubblica di Gennaro Aliberti.  La logica vieta simili sorprese. Finché la fogna non è murata non potrete sottrarre il vostro naso alle ulteriori esalazioni.
 E agli amici repubblicani (Pietro Pansini), che compirono opera onesta gettandosi contro il turpe amico della beneficiatella, e oggi tornano, con coraggio onesto, alla prova, vogliamo dire la verità: essi debbono (e, per tutti loro, lo deve  Rodolfo Rispoli che li rappresenta alla Camera) impedire che le esalazioni antigeniche girino la città impunemente, sbarrando dovunque e comunque la strada a don Gennarino.  Finché il deputato Rispoli, la cui probità è nota a tutti, prenderà parte alla conversazioni di interesse popolare in compagnia dell'onorevole Aliberti, e firmerà insieme con lui dei telegrammi o qualunque altra missiva all'uno o all'altro ministro nell'interesse del popolo, non si potrà pretendere che l'onorevole mascalzone ritorni a vita privata.
  Noi sappiamo che molti amici repubblicani sono di tale avviso, e giustamente, e confidiamo nella nobiltà dei propositi del nostro carissimo Rispoli.
  Poi che se lo mettano in mente tutti quelli che curano l'igiene sociale: Gennaro Aliberti è fogna che va murata.

Eduardo Giacchetti: direttore del giornale "1799", dalle cui pagine denunciava le malefatte dei politici napoletani.  

La Propaganda

LA CONDANNA DEL "FARO" | Pietro Pansini - Gennaro Aliberti

Corpo ed ombre

La sentenza è caduta come una riparazione severa ed inflessibile. Eppure mai più inutile condanna pronunciò labbro di magistrato.
Lo sciagurato, che, curva la fronte, sentì dopo la lettura la nostalgica sensazione delle annose catene di galeotto, era già condannato dinanzi al tribunale più augusto e più solenne della pubblica opinione.
Il processo che l'altro ieri aveva il suo epilogo nella IX Sezione del nostro palazzo di Giustizia è una pagina assai interessante della vita napoletana, che merita d'essere conosciuta.
E così, vincendo la ripugnanza che suscita nell'animo la codardia che l'ispirò e che, come spirito malefico, ne segnò le fasi e le vicende, noi assolviamo il debito di scriverne.
E ne scriviamo non già a suffragarcene le immacolate coscienze, che l'alito fetido delle calunnie non può appannare, ma per fare segnare alla storia della democrazia napoletana, nella cruda asprezza della sua lotta, questa che è un'altra battaglia vinta contro le forze del male, sollevate con il furore più insano contro di lei.
  Il processo che si scontò di questi giorni, e che vide montare - alta la fronte ed eretto l'animo che non crolla - alla ribalta dell'accusa uomini che nella lotta per gli alti ideali umani trassero il ministero coraggioso della loro vita - quel processo, tenuto dalla viltà posta in agguato nei nascondigli anonimi del vecchio mondo napoletano, ha finito - come dovea - con l'apologia meritata ed attesa degli aggrediti.
  Schizzato dai più vili bassifondi, dove il maleficio e l'oro e il fango gavazzano insieme, la camorra, prostrata a morte, avea trovato il suo mercenario scherano, che dovea servirle da scudo e dovea vibrare i colpi che la sua viltà non le consentiva vibrare.
  E servì così il lercio libello, a sfogare i rancori e gli odii lungamente covati nel silenzio macerante, a frenare le cupe bramosie della vendetta - blandita nelle ore dell'abbattimento e della sconfitta - ad aguzzare nella fucina innominabile del mendacio, l'arma più spregevole della calunnia e della diffamazione.
  Non invano tutto un mondo di interessi coalizzati era stato costretto a precipitare nel nulla; non invano le file serrate del camorrismo erano state con impeto nuovo sgomberate e disperse; non invano sulla vecchia piaga purulenta dell'affarismo era passato il ferro rovente e spietato della critica rivelatrice e la dilacerante fiamma della purificazione.
  La vendetta - che è il nettare degli Dei - ordiva i suoi piani e li riannodava attorno all'infamia, che è il nettare dei pusilli e dei vili.
Colpire nell'onore gli uomini più in vista di quella parte popolare, che aveva elevato la bandiera spietata della guerra e che era passata sul corpo dei vecchi ribaldi - questo era il segnacolo della riscossa dei vinti e dei colpiti.
  Ma l'arma dell'offesa si ruppe - come dovea - sul petto adamantino dei nostri amici. Quello che dovea essere il Calvario di espiazione della loro nobile temerità nelle lotte sante della redenzione napoletana, si tramutò nella gogna disonorante degli aggressori. La calunnia fischiò attorno al loro capo invano senza colpirlo.La sentenza del magistrato restituisce le loro figure più terse e più splendenti - rese sacre da un altro doloroso cimento - alla vita cittadina.
 *
 *     *
  Quando sorse il giornalastro che periodicamente annunciava alle cantonate, per acuire la morbosa curiosità del passante, le pubblicazioni diffamatorie contro i nostri migliori, all'occhio del pubblico appariva soltanto la figura insignificante d'un improvviso scombiccheratore di articoletti sgrammaticati e senza senso comune. Ma noi sapemmo mostrare il significato di quella stupida lotta di calunnie con cui si tentava confonderci e disperderci, con la quale si voleva allontanare, e dalla nostra parte, e dal nostro giornale il consenso incontrastato della moltitudine popolare. Noi vedemmo dietro di quel disgraziato mercenario, lo scherano visibile della vecchia banda di camorristi, che espiava le sue colpe, nel grande processo ch' ora volge - precipitoso e tragico - alla sua miserevole fine. E l'arte diabolica degli avversarii, che avevano sulle gote i segni ancora insanguinati del nostro scudiscio, si arrovellava a scalfire le figure blindate e terse di coloro, che più erano apparsi - in un movimento di collettività - giustizieri implacabili e arditi.
  L'arma immonda della calunnia cercò avidamente le reni di Carlo Altobelli, quegli stesso che con l'Inchiesta sugl'impiegati avea osato scoverchiare l'indiscreto vaso di Pandora del mercimonio pubblico e della simonia amministrativa. Incalzò, con impeto acre, Arnaldo Lucci, quegli che tenendo a suo tempo la direzione di questo foglio, era apparso come il personale e più visibile fustigatore degli innominabili interessi. Tartassava dappresso Pietro Pansini - che nel processo Aliberti avea spietatamente colpito la banda ancora fornicante e tumultuante nelle anticamere amministrative.
 E si volgeva, con voluttà palese, contro il petto di un forte e di un coraggioso, cui l'audacia prorompente dall'entusiasmo e la diserzione dalle file conservatrici non trovava clemenza presso i tristi, scelti al malfare. E questi colpi erano dati col pugno di uno sciagurato, il cui braccio armava l'ira vindice dei colpiti. Nell'anfanare delle sue difese, nulla ha risparmiato, per ferire a sua posta, senza misericordia, ognuno dei nostri. E trascinato alla ribalta dei rei, contro noi che avevamo reso pubblico il suo edificante stato di servizio... carcerario, avea nello smarrimento della ferocia, tentato di colpire nel nostro Postiglione, il nostro giornale.
  E la guerra è stata secca, recisa, diritta, senza tergiversazioni. L'abilità curialesca del sofisma non ha trovato materia su cui potersi esercitare. La diffamazione contro i nostri amici appariva nella sua luce completa, radiosa.
  Non una nube ha turbato il cielo lindo di questo processo. La purezza e l'onore contro le rabide calunnie del vecchio mondo trafitto, hanno avuto il meritato trionfo. E la condanna è scesa severa, inflessibile, grave.
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Un solo risultato utile ha avuto il processo, non per noi che avevamo già squarciato le cortine del segreto, ma per il pubblico che non sapeva vedere il disgraziato che conducemmo innanzi al magistrato - il libellista pagato dai vecchi ribaldi. Ma ecco che questo masnadiero della penna si leva e - tra lo stupore degli uditori - confessa di essere lo strumento cieco nelle mani di gente che si nascondeva dietro le sue spalle per assicurarsi l'impunità. Il loro non era un delitto di chi vendica le proprie torture e le proprie umiliazioni, era l'assassinio compiuto alla macchia. Dietro il corpo di lui si profilano le ombre bieche di uomini tormentati dalle furie della vendetta!
  Il condannato di ieri, il bugiardo e nauseabondo libellista, ha voluto compiere il bel gesto di non aprire il labbro alla denuncia dei suoi mandanti!
  E tal sia di lui! Cinereo miserando, graverà su di lui la croce d'ignominia che altri han posto sulle sue spalle!
  Ma la sua confessione è completa. egli, nel circospetto silenzio dei nomi ha mostrato la macchinazione infernale, da chi e da quali interessi era stato montato. Ora in un'altra sezione dell'istesso Tribunale, dal quale il direttore del fogliastro immondo ha visto saldare alle sue terga l'ignominia della calunnia, un'altra sentenza si prepara che chiuderà questo periodo un po' tumultuoso della vita napoletana. Aveano sognato di arrivare al carcere dopo esser passati sulle dilacerate reputazioni morali dei coraggiosi autori della loro espiazione. Ma lo sforzo fu vano. La loro condanna ora è preceduta dall'apologia degli accusatori. E più sinistro e più buio, come un macabro sogno della fantasia atterrita, ghigna al loro sguardo la prigione che li inghiotte.

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Il dibattimento
Di questo processo del quale la stampa cittadina - ad eccezione del Roma - non ha creduto et pour cause - opportuno occuparsi, noi non riporteremo tutte le risultanze, poiché esse, in brevi parole, si riassumono tutte in una glorificazione ampia, completa, luminosissima delle figure dei nostri amici querelanti. Pansini, Marvasi, Lucci ed Altobelli; ma c'intratteremo specialmente sopra alcuni episodi del pubblico dibattimento che sono in grado di far intendere ai lettori quel che non sfuggì al pubblico che numeroso accorse nell'aula del tribunale: l'origine, cioè, e la ragione degli articoli diffamatori de il dietroscena che si faceva schermo della figura del Ciccarese.
  Ormai non può più dubitarsi che gli attacchi furono fatti non tanto alle persone dei querelanti, quanto al partito cui essi appartengono ed alla parte attivissima da ciascuno di essi avuta nel debellare le camorre, le camerille e le clientele che si erano formate nella vita amministrativa e politica di Napoli.
  I querelanti, quindi, unicamente perché, combattendo per la pubblica moralità, ebbero il coraggio di infrangere tutti i loschi interessi personali che si erano lentamente organizzati, e che compivano opera di cittadini onesti, e che compivano opera di cittadini onesti, furono fatti segno alla bava velenosa di coloro che colpiti e smascherati, si vendicarono coraggiosamente, diffamando nell'ombra e coperti dalla garanzia dell'anonimo.
  Non vi è in Napoli chi ignora la parte avuta dai querelanti, nei processi contro l'ex deputato Casale, il deputato Aliberti e quella avuta specialmente dall'avv. Altobelli nei processi Palizzolo e Cassibile.
  Ma i querelanti avevano anche in modo più energico combattuto contro la mala vita amministrativa.  L'opera era stata già efficacemente iniziata dall'Altobelli in quella inchiesta sugli impiegati municipali e che fu soffocata dalla passata amministrazione ed era stata coraggiosamente continuata specialmente dal nostro giornale prima e durante l'Inchiesta Saredo.
  Era naturale, quindi, che dopo il memorabile trionfo riportato dal nostro partito nella causa Casale-Propaganda,sorgesse il bisogno e la necessità di attaccare coloro, che, come testimoni ed avvocati, maggiormente avevano contribuito a quel trionfo. E non fu difficile trovare un Elviro Ciccarese dietro il quale si ripararono tutte le viltà.
  Ed il contegno riservato dal Ciccarese in pubblico dibattimento fu tale da riconfermare tale verità.
  I querelanti, forti della loro coscienza e dell'onestà della loro vita, avrebbero volentieri abbandonato il Ciccarese al suo destino, ma dovettero, principalmente per i partiti, di cui fanno parte, presentare querela autorizzando l'imputato alla più ampia, completa ed illimitata facoltà di prova.
  Anzi, tale nobilissimo sentimento giunse fino al punto di consentire che in pubblica udienza la prova si slargasse anche sui fatti nuovi che fosse piaciuto al Ciccarese di articolare non ostante che per questo non vi fosse stata querela e non ostante che essi non si fossero conosciuti in precedenza. L'imputato trasse vantaggio da questa generosa condizione che gli veniva offerta dalle coscienze pure dei querelanti e però la loro figura rifulge più splendida e luminosa dopo i risultati stessi del dibattimento e dopo la ritrattazione spontaneamentefatta dall'imputato e respinta sdegnosamente dai querelanti medesimi.
  D'altra parte sul contegno serbato dal querelante giudichino i lettori. Costui nel periodo istruttorio aveva affermato non dover rispondere di nulla, di non essere l'autore degli articoli diffamatori e cercava riparare se stesso dietro le figure dei poveri gerenti, così come gli altri si erano riparati dietro di lui.
  Ma l'istruttoria, per la parola di molti testimoni e per quella degli stessi gerenti, assodò autore degli articoli essere il Ciccarese ed allora egli, sconfessato dai suoi correi, in pubblica udienza, pur continuando ad affermarsi estraneo alla redazione degli articoli, fece il bel gesto di assumerne la responsabilità e tentò in tutti i modi di discreditare le persone da lui accusate, ricorrendo ad ogni mezzo e ad ogni specie di testimoni. ma fallitogli anche questo sistema, non ostante la concessione dei querelanti, svelò uno di coloro che erano stati gl' ispiratori dei suoi articoli ed invitato dal magistrato a fare i nomi degli altri, tacque, pure facendoli intravedere.
    Abbiamo già detto che egli non si arrestò innanzi ad alcun ostacolo per tentare di provare il suo assunto ed i testimoni che le sue affermazioni avrebbero dovuto riconfermare, andò reclutando nei più bassi fondi del senso morale e così egli fece ricorso ad avversari politici, a nemici personali dei querelanti, a direttori di altri giornali che le medesime accuse diffamatorie avevano precedentemente pubblicato, riportandone condanne per giunta, e perfino a clienti ed avvocati contrari avuti in giudizi penali e civili e tutti, tutti indistintamente, tra mezzo la loro mala fede, le loro reticenze, dovettero per primi inchinarsi innanzi alla vita intemerata dei querelanti cui furono costretti dall'evidenza stessa dei fatti narrati, fare omaggio.
  E molti dei testimoni non raggiunsero altro intento oltre quello di rivelare le loro brutture morali e la loro turpitudine,come - fra poco si dirà - fu anche consacrato in un'ordinanza del tribunale.
  Il trionfo dei nostri amici è stato completo ed indimenticabile ed è stato solennemente consacrato nella sentenza di condanna del tribunale!
  Ed eccoci ora a riassumere brevemente i risultati del dibattimento.

Per la querela Pansini
  Il Ciccarese in pubblica udienza del 22 aprile ultimo, dopo avere nel periodo istruttorio, tenuto il contegno di cui già abbiamo parlato, affermò:
"Io non posso provare quanto affermai contro il prof. Pietro Pansini e che forma oggetto della sua querela. L'amor proprio mi fece velo nel combatterlo perché era doluto di lui, che, a mia insaputa e senza alcuna necessità fece incarcerare mia madre nell'Ospedale della Vita, fornendo così ai miei nemici il destro per potermi definire un figlio ingrato. Ero pure doluto di lui, perché mi si fece credere che lui aveva voluto la pubblicazione del certificato penale a mio carico sulla Propaganda. Sono perciò dolente del disturbo creatogli e lo deploro".
  Eguali dichiarazioni il Ciccarese costantemente ripetette nelle udienze successive, ogni volta che i risultati del dibattimento offrivano sempre più la prova della insensatezza degli addebiti fatti dal Ciccarese. E fu constatato perfino che questi - denunziato per l'ammonizione - potette scongiurare tale grave provvedimento contro di lui, principalmente per la testimonianza favorevole fattagli proprio dal prof. Pietro Pansini per il quale poi, il Ciccarese, mostrò la sua gratitudine, col vendicarsi con gli articoli diffamatori!

Per la querela Marvasi
  Il Ciccarese in udienza, mentre ritrattava le accuse lanciate contro il prof. Pietro Pansini, riconfermava esplicitamente tutto, una per una, contro il nostro Roberto Marvasi, che, dopo questa pubblica discussione, ci è diventato ancora più caro. Egli ha conservato una calma ammirevole, tanto più perchè egli ha dovuto reprimere tutti gli scatti, giustissimi, della sua indole vivace, del suo temperamento ardente, del suo animo generoso e nobilissimo. Poche volte soltanto egli ha reagito, quando con qualche malignazione si cercava colpirlo alle spalle ed il suo santo risentimento trovava eco in tutte le anime oneste che assistevano al dibattito.
  Il Ciccarese aveva indicato per deporre contro di lui come testimone, tutti coloro che dal Marvasi erano stati colpiti in modo sanguinoso per avere sempre egli - come depose l'avv. Salvi - accettato generosamente la responsabilità non soltanto degli atti suoi, ma di quelli del partito e del nostro giornale, cui egli consacra tanta parte della sua attività e del suo ingegno.
  Enrico Leone, con una forma semplice e commovente, disse di lui cose lusinghiere assai, mettendo in evidenza la trasformazione subita dal Marvasi dal giorno in cui l'animo suo si è aperto alle ideali visioni del nostro partito. Perfino i testimoni avversari, coloro cioè che insistentemente, in tempi remoti o recenti, improvvisamente aggredirono il Marvasi, non potettero fare a meno di ammirare il coraggio del Marvasi che, aggredito energicamente, si difese. Né meno luminosa risultò la prova dei sacrifici fatti da lui nell'interesse del partito e durante la pubblicazione del suo giornale La Pecora.
  Ma ci piace ricordare qui quello che disse il deputato Rodolfo Rispoli e che produsse una grande impressione su tutti.
  Il Rispoli depose: "Ho avuto occasione di parlare del Marvasi col prof. Bovio, prima e dopo la malattia ed il professore diceva che era un gentiluomo ed una volta disse essere il Marvasi una gemma".
  L'opinione di Giovanni Bovio - che per la prima volta veniva riportata pubblicamente e che ignorava [...]

mercoledì 20 aprile 2011

Il grande rifiuto - Una lettera dell'avv. Enrico De Nicola, Primo Presidente della Repubblica

NOTE VARIE
L'egregio avvocato Enrico De Nicola, ribadisce, colla lettera che pubblichiamo, una notizia data due numeri fa, riguardante un noto galeotto assoldato dalle gentildonne e dai  gentiluomini colpiti dall'inchiesta e da d. Tommasò dell'Immobiliare
Napoli, 29 gennaio del 1902

  Spettabile Redazione della "Propaganda"
  Il Vostro giornale ha fedelmente riportato ciò che, per confusione nei ricordi o nella narrazione, gli era stato riferito relativamente ad un invito da me ricevuto per assumere la difesa del direttore (Eduardo Giacchetti) di un foglio ebdomadario contro il quale sono state sporte varie querele per diffamazione.
Ciò nei rapporti della Propaganda.
Per quanto riguarda la mia persona posso affermare con precisione irrecusabile che parecchi giorni or sono un mio carissimo amico mi annunziò di aver ricevuto una visita di quel signore, il quale gli aveva manifestato l'idea di rivolgersi a me o ad un valoroso collega, di cui fece anche il nome, per il patrocinio delle sue ragioni. All'amico che mi dava simile preavviso con l'aggiunta di aver consigliato il mio fra i due nomi indicati, risposi meravigliandomi altamente che potesse venire a casa mia il direttore di quel foglio per invitarmi ad assumere la sua difesa.
Infatti, egli è stato querelato per una campagna che io, - giudice sereno perché lontano dalle lotte partigiane della mia città - reputo perfino inverosimile nella sua enormezza, iniziata o contro amici carissimi come Pietro Pansini, Carlo Altobelli, Roberto Marvasi, Alfredo Sandulli, Arturo Labriola, cui mi avvincono non soltanto sentimenti di stima sincera, ma nodi indissolubili di affetto fraterno - o contro altri come il Lucci, il Leone, ecc., che non conosco ma che, giovane anche io, altamente ammiro per lo spirito pugnace e l'ideale che li agita. E tale risposta avrei dato al direttore di quel giornale se fosse venuto a casa mia, come aveva preannunciato.
   Esposto così l'incidente nei più esatti particolari, dichiaro chiusa, per conto mio, ogni ulteriore polemica, porgendo a voi, onorevole redazione, i sensi della mia osservanza.
Avv. Enrico De Nicola

Abbiamo pubblicato con piacere questa lettera dell'avv. Enrico De Nicola noi che già fedelmente pubblicammo quanto egli ebbe a dire a un nostro amico.
E ci gode l'animo di aggiungere a titolo di lode del giovane avvocato, che egli, in pubblico tribunale, ha a tal proposito aggiunto: "Un avvocato che si rispetta non accetta certe cause!"  Ma se lo dicevamo noi! Costui sarà difeso da un ruffiano!

lunedì 18 aprile 2011

L'arte della memoria | La causa Aliberti - 1799 | Gennaro Aliberi, Eduardo Giacchetti, Piero Pansini


|| Aspettando l’udienza ||
Nonostante il caldo enorme, molto pubblico si addensa nel vasto salone di Castelcapuano aspettando che giunga l’ora del secondo spettacolo offerto dall’on. Giuoco Piccolo ai cittadini napoletani: uno spettacolo che dopo un anno si rinnova oggi per colpa di quei magistrati dell’8ª sezione del nostro tribunale che l’anno scorso non seppero seguire il nobile esempio di Raffaele de Notaristefani e con un’ambigua sentenza si astennero dall’imprimere sulla fronte del pallido criminale di Massalubrense il marchio della condanna reclamata con voce concorde dalla pubblica opinione e dalle risultanze di quel processo. Per colpa di quei magistrati Gennaro Aliberti, recentemente investito un’altra volta della carica di consigliere provinciale, può aggirarsi spavaldamente per i locali di Castelcapuano, sicuro che i magistrati della corte di appello non smentiranno le tradizioni della giustizia italiana, sanzionando la condanna inflitta all’onesto Giacchetti. Infatti egli va coi suoi fidi Rota e Gattola Mondella, ostentando la certezza del secondo trionfo. Ed anche oggi si fa seguire dai migliori campioni della malavita della sezione Mercato, la quale ha voluto novellamente testimoniare della solidarietà che la lega a don Gennarino e muovere al suo soccorso. A completare il corteo manca per ora soltanto Simeoni, trattenuto altrove forse per celebrare i consueti riti di Sodoma. Quando questi arriva, don Gennarino gli va incontro tendendogli affettuosamente le mani come per abbracciarlo, mentre lo stato maggiore camorristico, chiamato a raccolta per l’occasione solenne, fa ala al loro passaggio, rendendo gli onori (diciamo così tanto per intenderci) ai due non troppo onorevoli personaggi.

|| Nell’aula ||
Alle due e un quarto, cioè dopo una lunga attesa, l’usciere pronuncia con le sacramentali parole l’ingresso della Corte. E subito dopo il presidente dà la parola all’on. Pietro Pansini, il quale, rifacendo brevemente la storia del processo, chiede all’accusa se intende insistere sui motivi presentati all’ ultim’ ora, che escludono la facoltà della prova. Dichiara al rappresentante il P.M. che, se la discussione della prova fosse negata, i difensori saprebbero compiere il proprio dovere. Prosegue, Pietro Pansini, dimostrando la necessità che in questo processo d’interesse pubblico sia fatta ampia luce. Invita la Corte a decidere sulla limitazione della prova dicendo che, nella coscienza popolare è radicato il convincimento della disonestà dell’ Aliberti, per quanto riguarda l’esercizio del lotto clandestino. Questo processo - dice Pietro Pansini - è un capitolo della nuova storia di Napoli, la quale ha bene il diritto di sincerarsi dell’ onestà dei suoi rappresentanti politici.
La casa dell’uomo politico deve essere come di vetro, in modo che tutti possano vedervi dentro liberamente.
Questo impellente dovere non è stato compreso dall’ Aliberti e dai suoi difensori. Entra, quindi, nell’esame dei vari motivi di nullità del precedente giudizio e accenna con frase felicissima ai volgari espedienti della parte civile per impedire la prova. Passando all’esame dei testimoni ricorda che nella lista di essi figurano nomi di uomini superiori ad ogni sospetto come quelli di Domenico Miraglia, di Giusso, di Saredo, di De Martino, ecc., i quali non esitarono a dire il loro pensiero sfavorevole alla figura morale di Aliberti. Accenna ad un ultimo motivo di nullità: quello della malattia del giudice Puca, per cui il processo doveva rinviarsi. Cita in proposito parecchi esempi e, dopo aver discusso la illegalità della querela presentata ad un giudice incompetente, conclude augurandosi che la Corte di Appello accolga l’istanza della difesa.
La fine dell’arringa di Pansini è calorosamente applaudita dal pubblico.

|| L’intermezzo Rota ||
Un intermezzo che comincia con la lirica intonazione infiorata di motti latini che fanno rimanere attonito l’entourage piuttosto analfabeta dell’on. Giuoco Piccolo. Babbuino Rota si asciuga il sudore, beve il primo bicchiere d’acqua e poi comincia promettendo di essere breve. Il pubblico si mostra lieto di questa buona novella, la quale allontana il pericolo di una lunga parentesi di noia in quest’ora così asfissiante. Anche dal banco della stampa partono amorose occhiate di ringraziamento a Babbuino, il quale oggi appare più babbuino del solito, specialmente quando con invidiabile faccia fresca asserisce che non vi fu alcuna limitazione di prova per parte di don Gennarino Aliberti. A questa allegra trovata il pubblico prorompe prima in una sonora risata e poi in proteste, che sarebbero anche più sonore se non l’impedisse la presenza nell’aula di un considerevole numero di poliziotti. Il presidente chiama in soccorso il campanello, ammonisce il pubblico di non turbare la serenità della giustizia, ecc, ecc, e poi prega Babbuino Rota di essere più calmo e di non provocare il pubblico. Babbuino resta interdetto e continua a sballare castronerie d’ogni colore, fino al punto da assicurare , come la cosa più naturale di questo mondo, che a don Gennarino non pareva vero di rendere possibile una severa indagine su tutta la sua vita pubblica. Nuove risate dal pubblico e nuovi richiami del presidente. Dimenticando la promessa di essere breve, fatta in principio, parla lungamente senza concludere nulla e annoiando tutti coloro che hanno la sventura di ascoltarlo. L’eloquenza di Babbuino con questo caldo è addirittura insopportabile. Essa fa sbadigliare perfino l’usciere, il giudice Oberty e Gattola Mondella, i quali, a quanto ci si assicura, sono i soli ammiratori dell’illustre avvocato. Finalmente, come il Signore Iddio vuole, Babbuino Rota finisce ed il pubblico caccia un grande respiro di soddisfazione. Durante la sua arringa il chiaro uomo non ha fatto altro che leggere la memoria stampata di Simeoni. Quest’ultimo aggiunge poche parole a quelle del suo collega della P.C., e poi finisce anche lui chiedendo che la Corte non accolga la richiesta della difesa. A questo punto l’udienza viene sospesa per cinque minuti.

|| Il seguito dell’udienza ||
Riapertasi l’udienza il P.M. comincia la sua arringa con la quale respinge tutti i motivi di nullità presentati dalla difesa. Da questo magistrato che ha voluto così palesemente rendersi solidale coi nominati Rota e Simeoni noi non ci aspettavamo una serena parola di giustizia. Ed i fatti ci hanno dato ragione. Aspettiamo ora la decisione che venerdì prossimo dovranno pronunziare i consiglieri di appello, augurandoci che essa non violi gl’interessi supremi della giustizia e della moralità.